Il grido contro qualsiasi violenza: l’intervista a Ismete Selmanaj

Ismete Selmanaj è la nostra autrice di origini albanesi, ospite di due eventi programmati in occasione de “Il Giorno della Memoria”, dal titolo “Un impegno per il futuro: costruire un cammino senza crimini”, previsti il 27 gennaio, a Gela e a Niscemi, rispettivamente presso gli istituti scolastici “Luigi Sturzo” e “Leonardo Da Vinci”. In attesa del suo nuovo romanzo, la cui uscita è prevista per il prossimo mese, l’abbiamo sentita in riferimento al suo “Verginità rapite”, il libro d’esordio che ha riscosso un grandissimo successo di pubblico e di critica in Italia e che sarà perno del dibattito all’interno delle celebrazioni per le vittime della Shoah.

Ismete, la prima domanda sorge spontanea: da dove arrivi?

Sì, infatti ho un nome molto strano…mi chiamo Ismete Selmanaj Leba e sono nata a Durazzo (Albania) nel 1966. Sono madre di tre figli e dal 1992 mi sono trasferita in Italia, in provincia di Messina.

Com’è nata l’idea di scrivere “Verginità rapite”?

Ho sempre avuto la passione per la letteratura e durante le superiori ho scritto poesie e racconti ottenendo premi nei concorsi letterari in Albania. Ho smesso durante gli anni universitari perché ho studiato tutt’altra cosa. Negli anni del regime comunista, non eravamo noi a decidere il nostro corso di studi, bensì lo Stato. Perciò, lo Stato decise che vi era bisogno di ingegneri edili, piuttosto che di scrittori. Mi sono laureata all’Università Statale di Tirana nel 1991. Il libro è stato pubblicato in Albania nel novembre 2013 e ha partecipato alla Fiera del Libro “Tirana 2013”. La traduzione in italiano l’ho completata personalmente. Nel 2014 è stato pubblicato in Albania un altro mio libro: “Le teste dei due aironi rossi”. Ha partecipato con successo alla Fiera del Libro ”Tirana 2014”, classificandosi al terzo posto nel catalogo della casa editrice “Dudaj”.

“Verginità rapite” è il racconto straordinario della vita di Mira, in una grigia Albania sotto il regime. Perché hai sentito la necessità di una storia cosi cruda e dolorosa?

Ho voluto raccontare quelle storie narrate a mezza voce, giacché nessuno osava parlarne apertamente. Il romanzo si apre con una scena di violenza brutale commessa ai danni di una ragazzina appena quindicenne, Mira, da parte del segretario del Partito del Lavoro della scuola. Ma per l’opinione pubblica la colpa era la sua, come propria lo era quella di tante altre donne che, dopo le violenze subite, provavano vergogna e disprezzo nei propri riguardi.

Chi era il segretario del Partito?

Era colui che sanciva le sentenze. Il regime comunista, in tutte le istituzioni e in tutte le organizzazioni lavorative – e non solo – vi inseriva la figura del segretario del Partito che, di fatto, prendeva qualsiasi decisione. Ogni cosa avveniva sempre in nome del popolo e del Partito.

Quale periodo storico viene trattato?

La storia inizia negli ultimissimi giorni del 1979 e si conclude nel 2005. Mira attraversa il periodo buio del regime comunista, la caduta della statua del dittatore e della dittatura nel 1991 e, infine, la dolorosa transizione senza fine dell’Albania. Il travaglio è lungo 20 anni e la nazione non riesce a partorire la democrazia. Il paese si governa ancora mediante gli ex- segretari del regime che non si fanno chiamare non più compagni, ma signori. 

Perché il titolo “Verginità Rapite”? Perché il plurale?

Questo titolo vuole indicare come alla prima violenza subita se ne vadano a perpetrare altre all’interno delle segrete comuniste. Si è trattata di una violenza costante subita da un popolo e perpetrata da uno dei regimi più totalitari al mondo. Molti libri sono stati scritti sulle torture nelle carceri comuniste subite dagli internati e dai condannati a morte. Ho cercato di raccontare attraverso la storia di Mira ciò che molte altre donne erano costrette a subire nel separarsi dai propri figli della vergogna. Dal momento dell’abbandono forzato, queste donne non avevano più alcun diritto sui propri figli; loro diventavano i figli della madre Partito. Era un trattamento crudele e, diventando mamma per la prima volta, spesso ho pensato a queste madri sfortunate.

Perché la scelta di pubblicare il libro con Bonfirraro Editore?

Per tanti buoni motivi ho voluto fortemente che questo libro si pubblicasse con una casa editrice siciliana. Perché in Sicilia ho passato metà della mia vita, sono nati e cresciuti i miei tre figli, ho imparato il dialetto siciliano, che reputo stupendo e che mi ha conferito una grande ricchezza personale. Perché nel libro si parla della Piana Degli Albanesi, un paesino di Palermo abitato dagli albanesi giunti in Sicilia 500 anni fa per scappare alle rappresaglie turche. Hanno conservato la lingua arbëresh, gli usi e costumi dei loro antenati con una gelosia ammirevole. Non a caso il libro snoda il filo di un rapporto commovente proprio con la Sicilia e con i siciliani che non vorrei anticipare per non far perdere la sorpresa a chi lo vorrebbe leggere.

È una storia vera?

È una domanda che mi è stata fatta tante volte. Quando ero ragazzina, ho sentito raccontare tante storie e non capivo perché i grandi abbassassero la voce o si zittissero quando mi avvicinavo. O quando piangevo e dicevo alla mamma che volevo il latte pur sapendo che non c’era… La mamma mi diceva di non gridare perché ci avrebbero sentito, diceva che il latte c’era ma che lei non aveva avuto il tempo di comprarlo. Eppure il latte mancava, così come la pasta, lo zucchero, il caffè, la legna per scaldarsi, il cherosene per cucinare, l’abbigliamento. Ma non si poteva protestare: per una cosa del genere si finiva dritto in galera. Crescendo, capii che tutte quelle storie erano vere. Rimane sul generale… Dopo l’uscita del libro in Albania, mi hanno chiamato tante donne che non conoscevo, confidandomi in lacrime che ognuna di loro condivideva un pezzo di storia con Mira. Una in particolare era una mia amica d’infanzia. Ci siamo perse di vista per 30 anni e ci siamo ritrovate dopo la pubblicazione del libro. Mi raccontò di aver subito la medesima violenza in una cella del regime, senza raccontar alcunché per la vergogna. Abbiamo pianto a lungo, stringendoci forte. Lei si sentiva sollevata: finalmente parlava con qualcuno che non la giudicasse, ma la guardava per quello che era veramente, ovvero una vittima del comunismo. Non parlando di queste ferite, il pericolo che la storia si possa ripetere rimane alle porte. E non soltanto in Albania.

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