Donna come divinità attraverso la scrittura di Giovanna Mulas

Scrittrice, saggista, drammaturga pluriaccademica al merito. Attivista per i diritti umani, è ambasciatrice, per l’Italia, di numerose Associazioni internazionali impegnate nel mondo contro femminicidio e in generale a sostegno dei più deboli.

Giovanna, quando è iniziata la tua passione per la scrittura?

C’è un aneddoto legato alla mia infanzia, uno tra i tanti ma di cui la mia amata zia, ultra ottantenne, non perde occasione di parlare per deridermi. Per inciso, mia zia è quell’antica saggia presso la quale, scherzando ma non troppo, impongo agli amici di non mandare il giornalista rampante per un’intervista sul mio vissuto.

In realtà penso che, ad oggi, mi abbia salvato la reputazione il fatto che la zia parla prevalentemente in lingua sarda. Rivedo una Giò di 5 anni in casa dei nonni paterni, in Lanusei, che, tra una carezza ai gatti del vicolo e un frugare nei cassetti scarni, attende il ritorno dello zio esperto cacciatore dalle campagne. Il buon zio, tra pernici e quaglie, porta anche un corpicino di lepre; lo poggia sull’unico tavolo tarlato della povera ma dignitosa casa di famiglia, affinché venga pulito e preparato per il pranzo.

Rammento confusamente che salii sulla poltrona dell’adorata nonna (una donnona ciecanell’ultimo periodo della sua vita; raccontava che la cecità era una sua precisa scelta, stanca com’era di vedere le cattiverie degli uomini), sotto la cui lunga gonna da entroterra sardo amavo nascondermi, e presi a consolare il leprotto per la sua cattura.

Lo raccolsi piano (“Strano che si faccia toccare così…lo lascerò dormire così potrò accarezzarlo ancora e ancora e lui dormirà meglio perché capirà tutto il bene che gli voglio”), stringendolo al petto. Mi raccontano che ingoiai le strette scale di vecchio legno, nove ne ricordo, per correre a nascondermi sotto il letto dei nonni, il corpicino inanime protetto tra le braccia. E così venni trovata, imbellettata dal sangue del povero leprotto che continuavo a stringere convinta che, prima o poi, col potere di carezze e amore sarei riuscita a risvegliare da un sonnellino che, effettivamente, stava durando troppo anche per i miei gusti (Forse il leprotto vuole farmi un dispetto).

Quando mi dissero che la bestiola era morta e con la morte, “…Giovanna, figlia mia, non c’è davvero nulla da fare…”, piansi a calde lacrime l’ingiustizia che mio zio aveva compiuto contro un innocente; quindi la bugia di un Amore in grado di poter tutto, nel mondo.

Non volli lavarmi dal sangue fino a sera e a nulla servirono i rimbrotti di nonna e zii, uno schiaffo di mia madre. Mi rifiutai di mangiare: piansi rabbiosa contro qualcosa e senza sapere avvero cosa; comunque colpevole di permettere la morte di un indifeso, innocuo leprotto.

E a lungo non rivolsi la parola allo zio Peppino, il cacciatore.
Oggi rido di questo aneddoto; forte emblema o forse profezia, preludio di ciò che, poi, sono diventata con la maturità.
Rabbia e pianto: primo passo necessario a capire il mondo.
Sono un’aquila figlia della Barbagia, cuore della Sardegna, nipote di pastori e contadini. Mia madre soffriva di schizofrenia violenta, alternava passeggeri fasi di pura pace alla trasfigurazione improvvisa interiore e fisica dettata dalla malattia, i ricoveri improvvisi, i tentativi di fuga senza motivi apparenti. Mio padre, nella sua semplicità e la dura formazione imposta dal fascismo, m’iniziò alla letteratura che avevo sei anni: ovviamente mi vedeva come il riscatto di uno studio che non aveva portato a termine per ovvii motivi sociali ed economici legati particolarmente alla sua generazione. Bambina, cominciavo ad apprendere meccanicamente i primi passi della Divina Commedia e già ne amavo le pagine, già scrivevo; seppure è facile immaginare come e cosa. 

La passione era la stessa di oggi… nel momento stesso in cui quella passione svanirà smetterò di scrivere. 

Mi rivedo battere i tasti di una Olivetti Lettera 32 di seconda mano, prima con curiosità e gioco, poi con la voglia d’ingoiarmi il mondo tipica della giovinezza. Dopo, con l’eleganza superficiale del So Tutto Io, dell’ombelico.

Infine, con consapevolezza di responsabilità.

Oltre a essere una scrittrice, sei anche un’attivista che lotta a favore dei diritti umani, in particolare ti sta molto a cuore la condizione delle donne. Puoi spiegarci in cosa consiste il tuo impegno?

La vittimizzazione di un popolo si costruisce col tempo e la storia. È come una cipolla coi suoi strati: il primo è rappresentato dall’impedire un lavoro e di conseguenza il cibo, quindi la dignità, fino ad arrivare al nucleo della cipolla: l’annullamento dell’uomo in quanto tale, la sua distruzione. “Globalizziamo il bene, perché il male è già globalizzato”, scriveva l’amico poeta Carlo Bordini. Un cambio radicale è possibile con l’arte quindi la cultura, l’educazione contro la guerra e un programma ad hoc adottato da ogni Stato. Così si può pensare, col tempo, a educare il singolo al disprezzo verso la guerra e al potere sul più debole, su tutto ciò che è sinonimo di violenza.

La situazione attuale risulta assecondata da decenni di consumismo, di imperialismo durante i quali le teste del popolo, che chiamerò Popolo Consumo, hanno subito una formattazione all’accettazione passiva del nichilismo, a circolo chiuso. José Saramago scrisse in Cecità, di cui, da sempre, consiglio la lettura ai miei allievi: “(…) Secondo me non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo, Ciechi che vedono, Ciechi che, pur vedendo, non vedono”.
La mitezza perversa, ignorante dei media monopolizzatori (come di certi paggi da corte) e questo nichilismo diffuso non sostengono, anzi affondano la coscienza di un popolo che necessita verità, che ha il diritto di verità. La realtà stessa, la prepotenza e la prevaricazione storica del potere, l’oppressione e il dominio sul più debole trasporteranno fisiologicamente il popolo nelle vie della risposta violenta, non sempre voluta. Sorvolando la naturale tendenza dell’uomo alla prevaricazione, al leaderaggio, alla ὕβρις , Hybris: “superbia”, durante i prossimi mesi si comprenderà, mi auguro e Vi auguro, l’importanza dell’unità in un popolo, della conoscenza, del sentire davvero urlare nel sangue l’altrui dolore. 

Ma ritorno finalmente alla domanda.

Come è noto nel 2001, alla richiesta di separazione da mio marito e padre dei miei quattro figli, al tempo tutti minori, subii tre tentativi di omicidio, l’ultimo dei quali, per strangolamento e accoltellamento, mi lasciò quasi morta. Comunque morta dentro. Fu quello il mio buio nell’anima; ciò che chiamo, oggi con rispettoso affetto, il mio pozzo nero. Solo l’amore e la responsabilità verso i miei figli, quindi la vicinanza perpetua di mio padre, al tempo ancora in vita, mi tennero legata all’esistere. Tre anni di lontananza dalla mia vita, dall’Arte stessa. Smisi di scrivere, di vivere persino: dovetti viaggiarmi e viaggiare i miei fantasmi (sii attenta nel guardarli! Perché anche loro guardano te), cercare un perché al mio stesso essere lì e ora. Rammento disperazione, limbo, paura.

Nel 2003 partorii un libro scritto in pochi mesi e piangendo, quello che i miei Lettori conoscono come Lughe de Chelu, prima parte della mia autobiografia romanzata. La vita non aveva mai smesso di chiamarmi alla Vita, nonostante una donna non in grado di ascoltarne l’eco. 

Da quel momento in poi il lento, necessario risveglio dal sonno, dalla mia prima morte. Dico: se a qualcosa sono serviti dolore e lunga risalita, è stato rendermi consapevole dell’esistenza dell’altrui sofferenza, quella che era stata anche la mia. E ciò che potevo e dovevo fare, come donna e madre prima che scrittrice, per sostenere i più sfortunati.

Secondo te, cosa bisognerebbe fare affinché una donna non sia più vittima, ma padrona della sua vita?

Vero è che nessuno è più schiavo di colui che scambia per libertà le proprie catene.

Unità di menti e intenti, la consapevolezza, rappresentano la forza più grande. Consapevolezza che oggi e nonostante i famelici passi avanti di scienza e tecnica non si nasce liberi anche se lo si dovrebbe; almeno su carta. Si può ritenersi liberi quando non si ha un tetto per riparare, o un pasto per crescere i propri figli, o un letto in ospedale quando necessario. Si è attraversato in Italia, in Europa in genere, un periodo di profondo stordimento e spreco, imposto e/o voluto da mala politica quindi interessi terzi. Ora, e a lungo termine, raccoglieremo macerie, maschere cadute. L’individualismo profondo rappresenta una delle gravi patologie di cui è affetta la popolazione eurocentrista, come pure l’ignoranza strutturale.

Come può una donna, ogni donna e l’essere umano in genere, lottare per non far calpestare, e a livello giuridico e a livello etico, i suoi diritti, se non sa che esistono?.

Il messaggio che vorresti arrivasse ai lettori con il tuo libro qual è?

Si pensi alla caverna platonica. È lapalissiano che l’uso strumentale delle opposizioni ideologiche ha creato una profonda crepa nella società letteraria.
Voglio fare mie le parole dell’amico Pedro Espi-Sanchis, The Music Man, simpatico musicista delle cantanti nere Mama Madosini Latozi Mpahleni, la mia Mama nera, del Sudafrica, e Chiwoniso Maraire, dello Zimbabwe: “Nelle tribù africane non esiste il cercare di essere meglio di, l’ambizione che soltanto noi, signori ‘evoluti’, conosciamo… si pensi proprio alla musica e ai suoi strumenti. Il capo tribù da un pezzo di canna ricava tante parti uguali quanti sono gli abitanti della tribù. Ognuno di loro potrà suonare soltanto una nota e sempre la stessa che, se presa sola, apparirà sgraziata: un lungo – o intermittente – insensato fischio… ma unito alle note degli altri membri della tribù, quel fischio creerà la melodia. Tutti loro saranno uguali davanti alla musica, creandola. Qui sta la filosofia dei popoli neri: tutti uguali davanti a tutti. Nessuno di loro potrebbe vivere solo, senza gli altri”.

Credo nell’urgenza di un lavoro capillare sulle coscienze. Avverto un contesto sociale-storico-politico nel quale vige la necessità di un ritorno a quelle piazze simbolo del risorgimento del popolo, il Popolo Mondo, rinascita culturale e spirituale, anche sperimentale, piazze che mai hanno finito di appartenere al popolo se non quando il popolo stesso le ha dimenticate, sconvolto, indurito, distratto dal precotto, dal vuoto a perdere, da lassismo, nichilismo, dal consumo che continua a partorire conflitti tra le genti.

I poeti, i veri artisti, gli operatori culturali del e nel mondo hanno un’immensa responsabilità, non sempre cosciente, con l’umanità e il presente: la vita e la pace dei popoli sono minacciate, l’appetito dei predatori non ha limite. La terra, sacra, ci appartiene e noi le apparteniamo. L’arte può tanto, e non è mai tardi per affrontare un movimento mondiale a difesa della vita. Voi, noi tutti, abbiamo la parola; Verbo che può e deve farsi spada quando necessario alla consapevolezza comune, al pensiero critico. 

Avverrà mai la parità di genere?

Non esiste una parità di genere semplicemente perché l’Essere Uomo non è l’Essere Donna, e viceversa. Sì, invece, ogni uomo già porta in sé, fisiologicamente, una parte femminina. È come se la Natura Madre, o un Dio burlone, abbiano scelto di bilanciare l’uno attraverso l’altro; e il primo non sarebbe senza il secondo. Qui la Bellezza e l’arricchimento di entrambi; come nello scambio pacifico tra Popoli lontani, e relative tradizioni: la diversità.

Solo quando si conosce si apprende a non temere.

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